Insegnamento LABORATORIO DI INTERIOR DESIGN

Nome del corso di laurea Design
Codice insegnamento A001491
Curriculum Comune a tutti i curricula
Docente responsabile Marco Tortoioli Ricci
CFU 12
Regolamento Coorte 2019
Erogato Erogato nel 2020/21
Erogato altro regolamento
Anno 2
Periodo Primo Semestre
Tipo insegnamento Obbligatorio (Required)
Tipo attività Attività formativa integrata
Suddivisione

CARATTERI TIPOLOGICI E MORFOLOGICI DELL'ARCHITETTURA

Codice A001493
CFU 4
Docente responsabile Paolo Belardi
Docenti
  • Paolo Belardi
  • Aldo Drudi
Ore
  • 27 Ore - Paolo Belardi
  • 9 Ore - Aldo Drudi
Attività Affine/integrativa
Ambito Attività formative affini o integrative
Settore ICAR/14
Tipo insegnamento Obbligatorio (Required)
Lingua insegnamento Italiano.
Contenuti L’insegnamento, attraverso lezioni frontali ed esercitazioni, intende approfondire le diverse e più ampie argomentazioni sulle conoscenze delle diverse realtà tipologiche ed architettoniche per intervenire sulla logica compositiva e di definizione degli interni.
Testi di riferimento E. Cambi, B. Di Cristina, G. Balzanetti Steiner, "Tipologie residenziali a schiera", BE-MA, Milano 1980. C. Norberg-Schulz, "L’abitare. L’insediamento, lo spazio urbano, la casa", Electa, Milano 1984. E. Cambi, B. Di Cristina, G. Balzanetti Steiner, "Tipologie residenziali a torre", BE-MA, Milano 1986.E. Cambi, B. Di Cristina, G. Balzanetti Steiner, "Tipologie residenziali in linea", BE-MA, Milano 1987. "I modelli dell’edificazione", numero monografico di “Paesaggio Urbano”, 7, 1991. R. Roda, S. Marchegiani, "Edilizia residenziale a basso consumo energetico", Alinea, Firenze 1991. E. Cambi, B. Di Cristina, G. Balzanetti Steiner, "Tipologie residenziali con patio", BE-MA, Milano 1992. N. Alfano, "Breve storia della casa. Osservazioni sui tipi abitativi e le città", Gangemi, Roma 1997. A. Cornoldi, F. Viola (a cura di), "Nuove forme dell’abitare", Clean, Napoli 1999. S. Roaf, "Ecohouse-A Design Guide", Architectural Press, Oxford 2001. M. Zaffagnini, "L’edilizia residenziale", Hoepli, Milano 2002. G. Nannerini, a cura di, "Verso una nuova qualità dell’abitare. Concorso di idee per la casa del futuro", Edilstampa, Roma 2005. L. Monica, a cura di, "Gallaratese, Corviale, Zen. I confini della città moderna: grandi architetture residenziali", FAEdizioni, Parma 2008. R. Ruggiero, "Made in Social Housing", Aracne, Roma 2014.
Obiettivi formativi L’insegnamento consiste nell’acquisizione di conoscenze indispensabili per la progettazione degli spazi interni in relazione alle caratteristiche del manufatto architettonico.
Prerequisiti Conoscenze di storia dell’architettura, di disegno tecnico e di programmi di grafica.
Metodi didattici Il corso è organizzato nel seguente modo: lezioni frontali che vertono sui temi dell’architettura e del design. Lezioni a carattere seminariale, con materiale visivo, di approfondimento delle diverse tematiche riferite ad esempi moderni e contemporanei e analisi comparata. Redazione di un tema progettuale a carattere individuale all’interno di un’architettura assegnata, e trattata all’interno delle lezioni.
Altre informazioni Nessuna.
Modalità di verifica dell'apprendimento Lo studente in relazioni agli argomenti e agli approfondimenti affrontati, significativi per l’acquisizione dei termini necessari alla definizione del procedimento progettuale, produce un progetto di distribuzione ed ambientazione congruo all’ambito di intervento, rispettandone e valorizzandone aspetti e peculiarità.
Programma esteso Il programma del corso, attraverso lezioni frontali ed esercitazioni, intende approfondire le diverse e più ampie argomentazioni sulle conoscenze delle diverse realtà tipologiche ed architettoniche per intervenire sulla logica compositiva e di definizione degli interni, che nel rispetto delle caratteristiche stilistico- architettoniche dell’ambito di intervento manifestino gli orientamenti del pensiero contemporaneo. Lo studio della disciplina storico- architettonica e del design, attraverso esempi e riferimenti è parte integrante per la conoscenza della modificazione e della evoluzione del concetto di habitat, garantendo un consistente apporto culturale al progetto.

INTERIOR DESIGN

Codice A001492
CFU 8
Docente responsabile Marco Tortoioli Ricci
Docenti
  • Marco Tortoioli Ricci
  • Andrea Margaritelli
Ore
  • 63 Ore - Marco Tortoioli Ricci
  • 9 Ore - Andrea Margaritelli
Attività Base
Ambito Formazione di base nel progetto
Settore ICAR/13
Tipo insegnamento Obbligatorio (Required)
Lingua insegnamento ITALIANO
Contenuti Il progetto della Casa Evolutiva
Syllabus corso 2019-2020


La nostra capacità di progettare i luoghi dell’abitare ha bisogno di ridefinire paradigmi che consideravamo immutabili. I profondi mutamenti dovuti alla pandemia globale che stiamo ancora vivendo, le crisi geopolitiche che portano grandi masse di persone a migrare, il cambiamento climatico in tutto il pianeta e la sua imprevedibile accelerazione, la crescente necessità di ripensare il concetto stesso di luogo di residenza e di vita in nome di una nuova flessibilità, del concepire spazi ibridi che siano insieme residenza, scuola e ufficio chiede di includere nella nostra analisi progettuale variabili nuove e un diverso disegno di spazi interni, volumi mobili, uso della luce e integrazione tecnologica.

Sembra prevedere questo senso di sbriciolamento identitario dello spazio Georges Perec, nelle pagine di chiusura del suo Specie di Spazi “Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti: il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti. Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio, devo continuamente individuarlo, disegnarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo. I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio si infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato. Non ci sarà più la scritta in lettere di porcellana bianca incollate ad arco sulla vetrina del piccolo caffè di rue Coquillière: ‘qui si consulta l’elenco telefonico’ e ’spuntini a tutte le ore’. Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio, il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi. Scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”.

È rivelatore quando afferma che lo spazio è un dubbio, esiste solo nelle aspettative e nella memoria di chi lo cerca, memoria che diventa sempre più flebile e imperfetta, Perec suggerisce la via quando rivela la necessità continua di individuarlo e disegnarlo per farlo persistere oltre che esistere.
Oggi questa sua ‘predizione’ di inafferrabilità dello spazio si realizza nella nuova necessità di abitazione che i tempi impongono imponendo la disponibilità di spazi abitativi di carattere nomade e temporaneo. Le comunità di persone che a vario titolo si spostano per cercare nuove vite fuggendo dalla mancanza di lavoro, di pace o di acqua, hanno necessità di case lungo il cammino che compiono da usare non per un tempo indeterminato, ma spesso per brevi periodi di residenza. Nascono così le case di occupazione abusiva, le lotte sociali fra poveri e disperati senza identità e diritti.

Nella storia dell’uomo la forma della casa si è sempre collegata alla vita condotta e a un rapporto più o meno diretto con l’ambiente e il contesto nei quali si intendeva condurre l’intera propria esistenza. La casa dell’agricoltore, del religioso, del monaco, la casa dell’allevatore, la residenza del regnante, il castello del nobile, del mercante, del professionista, la casa dell’operaio, quella dell’artigiano; per ognuna di queste forme abitative nella mente di formano immagini facili da evocare e che in buona parte hanno anche costituito alcuni paradigmi che definiscono gli stili architettonici a cui ci siamo ispirati per costruire, negli anni. È completamente diverso se invece dovessimo immaginare nello specifico la forma di una abitazione se dovessimo riferirla a necessità di vita specifiche e meno comuni.

La forma di una casa in una favela di Rio,ad esempio, nata per ospitare famiglie e lavoratori arrivati dalle campagne è più difficile da immaginare. Siamo più viziati dalle immagini delle enormi distese di quelle che cataloghiamo come baracche e che in un susseguirsi denso e senza soluzione di continuità, coprono intere colline ai bordi della grande città. Ma non sappiamo come ognuna di quelle case è organizzata all’interno e saremmo sorpresi da quanta flessibilità e organizzazione regnano all’interno di quegli spazi.
Lo stesso accadrebbe negli slum di Città del Capo o nelle Villa Miseria di Buenos Aires. Non una grande differenza dalla generazione spontanea di case nel tufo che fino dai tempi antichi hanno disegnato l’incredibile struttura dei Sassi di Matera antica, ‘stanze’ di residenza in cui uomini e animali condividevano il medesimo spazio vitale e che, alla nascita di un nuovo figlio, potevano allargarsi semplicemente scavando più in profondità nel tufo e aggiungendo stanze.
La Casa Evolutiva di Piano e Rice

È il tema del multiuso in chiave generativa e della flessibilità dello spazio quello che fa da guida al progetto che dopo peripezie nasce qui in Umbria, prodotto dall’azienda Vibrocemento di Perugia, ovvero la Casa Evolutiva, progettata da Renzo Piano e Peter Rice nel 1978.
La data non è casuale perché il progetto nasce negli anni immediatamente successivi al terremoto in Friuli del 1976 e l’idea è quella di concepire una casa ad uso famigliare che potesse essere prodotta con bassi costi e montata in velocità.

Il Renzo Piano di allora è quello ancora animato da un pensiero radicale che in coppia con Richard Rogers e sempre con la collaborazione tecnica di Peter Rice lo aveva portato nel 1972 ad essere scelto come proposta vincitrice per il progetto del nuovo Centre Pompidour parigino. Il progetto della Casa Evolutiva nasce da presupposti simili ovvero portare al limite, anche come fatto estetico il tema strutturale del progetto, mettere l’uomo al centro del disegno dello spazio oltre il piano meramente funzionale, ma facendo in modo che il progetto stesso desse al suo utilizzatore un ruolo attivo che tramutandolo di fatto in co-progettista affidandogli la possibilità di modificazione dello spazio.





Natura del progetto.
Piano e Rice concepiscono lo spazio domestico come spazio destinato a una gestione dinamica e variabile dello spazio abitativo, partendo da una struttura esterna di dimensioni fisse al cui interno però, la possibilità di modificazione e personalizzazione delle dimensioni vitale è massima. Le tamponature vetrate sui lati esterni possono infatti muoversi su binari, modificando i rapporti tra spazio interno e spazio esterno.
La struttura di queste abitazioni era infatti concepita affinché al cambiare delle esigenze di abitazione, come il crescere del numero dei figli, si potesse modificare la partizione dello spazio interno grazie alla possibilità di far scorrere le pareti cambiando di fatto la dimensione delle stanze.
È interessante ascoltare oggi le parole con cui un Renzo Piano giovane e scapigliato spiega il progetto e le sue molteplici accezioni, progetto che nella sua premessa è in grado di attivare articolate attenzioni di tipo non solo funzionale ma già, sociali, ambientali, comunitarie. La prova di questa consapevolezza è anche l’attenzione che Piano e Rice mettono nel progettare l’ambiente esterno di questa prima installazione fatta Bastia Umbra, sulla piana assisana. Pensano qui a uno spazio esterno vivibile che potesse vivere in osmosi con gli spazi interni e a un piccolo bosco di betulle che potesse funzionare da strumento naturale di controllo della temperatura esterna.

Come si vede chiaramente una teoria dell’abitare che risuona molto anche con le nuove esigenze odierne che il vivere in convivenza con un virus mondiale ci ha imposto. La flessibilità in chiave evolutiva da Piano e Rice è quella che oggi molte delle nostre case, chiamate ad ospitare simultaneamente momenti di lavoro e di vita, richiederebbero. I limiti che una architettura degli interni pensata per una società globalizzata e caratterizzata da un uso iperspecializzato degli spazi ci ha consegnato, sono oggi immediatamente evidenti. Ma ripensare una architettura flessibile deve partire da una attenta analisi delle relazioni che le persone stabiliscono all’interno dei propri spazi di vita e dal considerare la variabile ‘tempo’ che di fatto trasforma le nostre case e i nostri uffici lungo le ore della giornata.





La casa che cresce,
Da Le Corbusier a Joe Colombo.


Per altro, il tema della flessibilità, della multifunzione e della resilienza degli spazi, soprattutto in virtù del forte inurbamento delle grandi città e della necessità di razionalizzare la necessità di convivenza di grandi numeri di persone è diventato presto, in epoca moderna, un consistente tema progettuale per grandi architetti.
Fuori da ogni necessità sociale, il progetto di Le Corbusier per la casa da destinare ai suoi genitori, ‘Le Lac’, piccola residenza su un solo piano di 16x4 m costruita sulle rive del lago Lemano nei pressi di VeVey in Svizzera, è oggetto di un lavoro di progettazione quasi ideale per il padre dell’architettura funzionale. Su questo progetto infatti scriverà il saggio ‘Une Petite Maison’ in cui teorizzerà l’idea della casa come ‘machine-à-habiter’, macchina per abitare, idea concreta di uno spazio che si mette al servizio dell’uomo. Quando Le Corbousier si riferisce all’uomo, lo fa nella sua concezione neo-umanistica tipica dell’utopia razionalistica, ovvero all’uomo che oltre alle sue necessità biologiche deve soddisfare quelle fisiologiche, scientifiche ed estetiche.



Nel suo progetto grande attenzione è data alla fluidità e continuità dello spazio, ma al contempo alle partizioni tematiche che consentono i diversi momenti di vita, così come agli scorci e alle aperture da cui si vede l’ambiente esterno. Insomma una vera interpretazione in chiave poetica di uno spazio unico abitabile.

È interessante notare come riducendo lo spazio complessivo di progettazione e passando dalla scala abituale che l’architettura affronta, ovvero dell’edificio, del palazzo, del complesso urbano, a quella minimale dell’abitazione in piccole dimensioni, diventi più difficile separare le competenze tipiche dell’architetto da quelle del designer, visto come il rapporto tra il disegno degli ambienti, le sue funzioni e il contesto, debbano necessariamente far parte di un pensiero unico o ancora meglio multidisciplinare. Diventa quindi centrale l’aspetto metodologico nell’affrontare questa tipologia di progetto.

Ne è un tipico esempio il progetto sviluppato da Arne Jacobsen, indiscusso maestro del design scandinavo della prima metà del ‘900, per la casa modulare Kubeflex, vero manifesto del movimento strutturalista.
Jacobsen arriva però a formulare questa sua soluzione ‘finale’ dopo aver già dato prova di se nel concepire soluzioni immaginifiche legate a un’idea di casa sperimentale quando nel 1927 risulta vincitore del concorso ‘La casa del futuro’ a cui partecipa in copia all’amico Flemming Lassen.

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Il progetto Kubeflex è però molto più concreto e contemporaneo, è in sostanza il progetto in chiave utopica di una casa espandibile, la cui struttura complessiva sarebbe stata ottenuta dall’accostamento di moduli cubici prefabbricati di 10mq ciascuno, aggregabili in forma elementare e le cui partizioni esterne potevano disegnarsi lavorando du una griglia modulare che consentiva di tracciare aperture e finestre seguendo un ritmo estremamente rigoroso. L’idea era quella di consentire all’utilizzatore di poter assemblare una casa in base ai propri bisogni con estrema libertà.
In sostanza, e semplificandone il principio combinatorio, la casa Kubeflex poteva essere allargata come componendo una costruzione Lego; ogni modulo era costruito per essere autosufficiente e la possibilità di creare aperture liberamente consentiva di comporre un evolversi dello spazio domestico senza altri vincoli che non la dimensione stessa del singolo modulo.
Kubeflex fu esposta a un fiera in Danimarca nel 1970 senza alcun successo commerciale, progetto probabilmente concepito troppo in anticipo sui tempi. I moduli prodotti per l’esposizione divennero di fatto la casa estiva di Jacobsen e sono ancora oggi visitabili negli spazi esterni del Danish Museum di Trapholt


Se ci riferiamo alla natura radicale e utopica che il design e l’architettura sentivano di dover rivestire in quegli anni in Italia non possiamo non citare il caso di un protagonista, purtroppo prematuramente scomparso, ovvero il visionario Joe (Sergio) Colombo, protagonista dei movimenti artistici di neoavanguardia nella Milano del secondo dopoguerra, invitato da Munari a entrare a far parte del MAC milanese, il Movimento di Arte Concreta e che lo inizierà al mondo del design. Molto sensibile dalla metà degli anni ’60 in poi ai mutamenti sociali sollecitati dai movimenti studenteschi in tutta Europa che stavano affermando una maggiore libertà sociale e culturale a nuovo modello di vita, sarà autore di progetti in cui il tema di un neo-nomadismo, la multifunzionalità degli spazi e la disponibilità di spazi abitativi di dimensioni ridotte, diventano elementi costanti della sua poetica grazie alla quale ha fatto nascere progetti di assoluta visionarietà. Occorre citare tra i suoi progetti ‘Sistema programmabile per abitare T14’, ‘Square plastic system’ e soprattuto la ‘Total Furnishing Unit’ esposta nella mostra ‘The new domestic landscape’, allestita al Moma di New York nel 1972.


Si tratta di un modulo abitativo ultracompatto in cui si condensano tutte le funzioni vitali essenziali condensate in un design omogeneo e organico in forma di ecosistema condensato da constare totale autosufficienza a chi lo avesse abitato.
Questo è il modo in cui viene descritto dai curatori del Moma di New York: ‘The Total Furnishing Unit was a homogeneous living system that contained all the personal necessities of daily life by creating a seamless environment. A bedroom, a bathroom, a kitchen and a private space were functional integrated in the unit. A cupboard and a dining table were “hidden” in the structure with the function of both keeping private and saving space. Old lights collected from abolished cars were planted on the top of the unit for lightening, which contributed to a sustainable environment. In the unit, yellow, white, silver and other small pieces of colors can be found, conveying a combination of contemporary era and future techniques.
Though smoothing lines and the layout, the total furnishing unit can be described as a logical and scientific design. The unit presented a concept of the modern loft by every space area could be modified and moved based on user’s own necessity, showing a great flexibility. In Joe Colombo’s idea, the romanticism of the self-contained pods can be accurately expressed by shifts in human lifestyle. That was why he preferred to call his works equipment instead of furnishings. As he said, traditional families were tending to require a living and working space for meditation and experimentation, to intimacy and to interpersonal exchanges.






Il tema progettuale di quella che potremmo definire abitazione unipersonale o di moduli abitativi di ridotte dimensioni, in tempi recenti diventa però ambito che si arricchisce di significati nuovi, tutti legati a un mondo sociale e politico in rapido mutamento. Come accennato all’inizio, cambiano le necessità dell’abitare, cambia il significato stesso della parola, si allontana dall’accezione dell’abitare in senso di ‘risiedere’ e si avvicina invece all’origine etimologica della parola della casa come ‘abito’ da indossare da ‘habere’. Quest’ultima accezione è più vicina alle necessità che nuovi gruppi sociali hanno sviluppato per fattori non interamente dipendenti da volontà o scelte personali; ci sono intere comunità costrette ad intraprendere migrazioni che si rendono necessarie per fuggire alle guerre, a condizioni climatiche non più compatibili con la vita dell’uomo, alla prospettiva di un futuro che non consente più di poter crescere i propri figli. Il percorso di migrazione abbraccia spesso distanze molto grandi e richiede di poter risiedere anche per brevi periodi. Le nostre case tradizionali non sono pensate per residenze brevi, quanto piuttosto per una vita strutturata che guarda al lungo periodo, alla stabilità. In questo senso, per motivare una riflessione più seria e al tempo stesso fortemente sperimentale, si inseriscono qui progetti di grande visionarietà come il Refuge Wear di Lucy Orta, come lei stessa le chiama, sono ‘architetture indossabili’, progettate insieme al marito, l’artista argentino Jorge Orta, sono abiti in grado di diventare abitazioni utili per fronteggiare condizioni di emergenza.
Sviluppato subito dopo la seconda guerra del Golfo, i Refuge Wear sono abiti che diventano rifugio estemporaneo per isolarsi dal mondo esterno e trovare immediato luogo di rifugio, habitat rassicurante, protezione. Da questo punto il lavoro della coppia di designer artisti si è evoluto arrivando a concepire le body architectures, come un vero strumento in grado di facilitare i processi di socializzazione e al contempo rendere ‘speciali’ e nuovi i movimenti a cui il nostro corpo è chiamato vincolandone le possibilità di azione abituale. Le bodu architecture sono infatti speciali installazioni, commissionate dalla Fondazione Cartier e utilizzate da performers a danzatori, vincolati nelle loro azioni da queste architetture indossabili.
Siamo fortemente colpiti nell’intuire quanto questo modo di lavorare sia rivoluzionare nel reinterpretare il concetto stesso di abitazione, portando il tema dell’emergenza e della necessità di disposizione di uno spazio personale, all’estremo, rimettendo al centro le vicende umane, la storia delle persone e privando il tema progettuale intorno alla residenza, completamente privato dal conforto dello stereotipo e dei modelli paradigmatici che ci sono consegnati dalla storia del design e dell’architettura.
Oltre questo, chiama in modo profondo l’atteggiamento e il grado di consapevolezza che il progettista deve poter fare propri nell’affrontare qualsiasi tema progettuale quando applicato al mondo contemporaneo, pieno come ce lo troviamo dei contrasti e delle incertezze che lo caratterizzano.

Come dobbiamo ripensare quindi il metodo progettuale? Quali sono le informazioni che siamo chiamati a raccogliere per avviare consapevolmente questo percorso di mediazione, modellizzazione e sintesi che superficialmente chiameremmo ‘creazione’? Come possiamo analizzare propriamente l’audience, gli utenti a cui il nostro progetto è destinato? Siamo in grado, coinvolgendo i possibili utilizzatori di farli diventare parte del processo progettuale che intendiamo percorrere? E come cambia il nostro modo nella scelta di materiali, spazi, relazioni, luci, interazioni, semantica, se coerentemente quanto emerso da un lavoro di coinvolgimento e ricerca di un gruppo di possibili utenti, volessimo direttamente renderlo visibile in quanto stiamo progettando?

Obiettivo del corso sarà anche saper rispondere a queste domande. Per facilitare l’approccio a una metodologia di lavoro che potremmo definire partecipativa e inclusiva partiamo dal riscoprire un progetto che nel 2011-12 ho avuto la fortuna di condividere con Aldo Cibic, designer italiano di fama internazionale, già allievo e collaboratore di Ettore Sotsass e oggi professionista e docente riconosciuto in tutto il mondo. Quando in quegli anni fui chiamato a coordinare un laboratorio di falegnameria all’interno del carcere di massima sicurezza di Spoleto, pensai di coinvolgere alcune grandi firme del design italiano al fine di supportare e dare qualità al lavoro dei detenuti che allora lavoravano in falegnameria per la produzioni di alcuni degli arredi delle celle carcerarie.
Ciò che emerse da quell’esperienza fu qualcosa di completamente diverso, in grado di sorprendere per primi proprio Aldo e me. Non fummo noi a fare lezione ai detenuti, ma furono loro ad aprirsi gli occhi sulle necessità di vita all’interno di una cella di 11,7mq. Riporto di seguito al testo che scrissi come introduzione al libro che ha raccontato il progetto Freedom Room in occasione della sua presentazione alla Triennale di Milano nel 2012. Il progetto di un modulo abitativo delle dimensioni di una cella.
Freedom Room.
Fernando, Massimo, Vincenzo, Ben Alì e Leo ci aspettavano seduti intorno al tavolo quadrato. Erano lì, le mani appoggiate sul piano, di fronte a ciascuno un album da disegno e matite pefettamente appuntite. Il senso di attesa, la curiosità, un fondo di incredulità, avevano disegnato sui loro volti espressioni da bambini impertinenti, curiosi di scoprire cosa avremmo ‘portato’ in quella falegnameria blindata. Quel primo incontro era stato organizzato quando l’inverno era ormai alla fine, ma tra le mura spesse, a Spoleto, nel cuore del carcere, il freddo continuava a stagnare a lungo anche a primavera inoltrata. Avevo avvisato Aldo Cibic di coprirsi; nella stanza/aula ricavata all’interno della grande falegnameria avrebbe fatto un bel freddo. L’obiettivo del corso, di questo si trattava, era formare professionalmente un gruppo di detenuti al lavoro in falegnameria. Fernando, Massimo, Vincenzo, Bel Alì e Leo avevano storie diverse, età diverse, origini diverse, ma in quel momento si trovavano forzatamente nello stesso luogo e a tutti era concesso lo spazio di libertà di un corso.

Ogni attività in carcere è preziosa. È il non fare niente che è pericoloso, risveglia inquietudini che spesso fanno uscire di testa.
Il tempo assume una diversa ‘densità’, cambia dimensione. Le piccole unità di tempo che scandiscono il quotidiano si ingigantiscono, mettono paura, mentre si fanno più facilmente i conti con i decenni che definiscono il tempo della condanna.
Fu una delle prime cose che imparai cominciando il lavoro in quel carcere con la cooperativa Comodo nel 2003. Da lì nacque quell’idea di una serie di taccuini e diari che prendessero in giro, usando il registro del paradosso e dell’ironia, il tempo stesso. Li chiamammo Oggetti di Comodo e credo che alcuni di loro stiano ancora itinerando per il mondo all’interno di una mostra della Triennale di Milano, ideata e curata da Mario Piazza che aveva per titolo ‘New Italian Design’. Un lavoro fatto bene, avevamo portato quel primo gruppo di detenuti a pensare a loro stessi in modo diverso, fuori dalla abituale retorica fuori-dentro. Avevamo portato quelle persone a pensare a se stessi come persone capaci di dare, creare, essere utili alla società non reclusa.
Per questo motivo il lavoro in carcere è ambito. Ogni tipo di lavoro, meglio se impegna il corpo oltre che la mente. Era così anche per Fernando, Massimo, Vincenzo, Bel Alì e Leo. Avevano il loro corso, un appuntamento, un orario, altre facce da incontrare e piccole sfide che aiutano la giornata a passare più velocemente.

Loro, quindi, erano stati selezionati per diventare falegnami.
E dopo aver imparato a segare, piallare, levigare, accoppiare, verniciare, avrebbero conosciuto cosa significa ‘progettare’.
Nell’ambito di quel corso avevamo deciso di chiamare un designer di chiara fama per introdurre il tema del design come elemento in grado di portare qualità a una produzione che in quella falegnameria si era sempre dedicata alla confezione di arredi per le carceri italiane. L’intenzione, la speranza dovrei dire, si limitava allora all’idea che da questo incontro sarebbe uscito un nuovo sgabello, un armadietto diverso dai soliti, una qualche strana forma in grado di conquistarsi un po’ di attenzione e lasciare nell’esperienza dei detenuti la coscienza che le cose possiamo disegnarle e pensarle, invece che farle solamente.

Non avevamo pensato però che la lezione, in modo inaspettato l’avremmo ricevuta, l’avrebbero fatta loro a noi. Dopo le presentazioni ha cominciato Vincenzo. Lui, raccontava, era un ‘designer’ di barche, motoscafi di altura. Amava costruirle nella sua cella. Certo, non quelle vere, racconta Vincenzo, ma ‘come’ quelle vere.
Sono barche fatte di stuzzicadenti, 8000 per la precisione; sono tanti, sono quelli che servono a fare una barca grande, incollati uno per uno dopo aver loro tagliato le punte.
Fu chiaro subito che stava partendo una sfida, una presentazione vecchia maniera, una gara a chi aveva storie più interessanti e strane da presentare agli ‘ospiti’, un fiume in piena che ci investi e riservò piccole meraviglie. Scoprimmo così che il letto, con opportune modifiche è anche scarpiera, il bagno è anche cucina e un guardaroba si può fare velocemente fissando un manico di scopa tra due armadietti. Una lattina di Coca fissata a un bastone è una buona antenna della televisione e, meraviglia, con lo sgabello in dotazione a ogni cella, si può costruire un forno per cuocere crostate.

Siamo stati una giornata insieme a loro, ascoltando per lo più, disegnando e progressivamente immaginando; lentamente emergeva, su quel tavolo quadrato, una diversa idea dello spazio. La cella, 9 metri quadri, di cui i nostri nuovi amici raccontavano momenti e gesta, acquisiva con il passare del tempo, un volume espanso da tanta creazione spontanea, da tanti oggetti eclettici, reinventati e multifunzione.
Evidente, si concretizzava l’idea, nelle ore di quell’incontro, che era proprio il pensiero elucubrativo, narrativo, progettuale in ultima sostanza, a costituire la possibile cerniera in grado di riconnettere quel mondo recluso e separato con il mondo esterno libero e occupato. Stavamo lavorando insieme, nessuna lezione e nessun discente, piuttosto la possibilità aperta di riconnettere esperienze che la vita aveva fatto arrivare li da cammini distanti.
In sostanza avevamo bisogno di loro, non solo Aldo e io, non solo gli assistenti, gli organizzatori, la direzione del carcere, ma la comunità tutta. Avevamo riscoperto la necessità di guardare alla nostra esistenza da un punto di vista diverso, una angolazione che potesse farci riconsiderare i nostri spazi di vita, il nostro senso dell’utile e del funzionale, ormai completamente sintetico velleitario e distante dal vero.

Noi però non ci occupiamo di inclusione sociale, non siamo operatori, non siamo politici (nel senso tecnico), il nostro lavoro è progettare. Quale può essere quindi il nostro compito? Può il design essere uno strumento per riavvicinare mondi lontani?
Nel 2007 mi era capitato di vedere al Cooper-Hewitt Museum di New York una mostra che aveva un titolo destinato a essere ricordato, Design for the Other 90%.
Il giardino del Museo era ingombro di case di cartone, frigoriferi di terracotta in grado di funzionare senza elettricità, scooter in grado di funzionare come generatori di corrente per alimentare antenne satellitari destinate a portare una connessione internet in villaggi remoti. Il senso era chiaro. Perché destinare il 90% del nostro pensiero di progettisti per il 10% della popolazione del pianeta? Perchè le idee illuminanti riservate alla produzione di oggetti esclusivi e costosissimi non potevano invece essere dirette a risolvere alcune questioni basiche e necessarie per migliorare la vita a fasce più estese di popolazione?
Domande retoriche, a tutti piace essere pagati bene.
Ma l’urgenza che emergeva da quel titolo era espressa perfettamente dal segno percentuale. È una questione di misura. Non c’è colpa nell’essere pagati per il proprio lavoro, ma quanto più si ha successo e si raggiungono meritatamente posizioni sociali sicure e protette, tanto più una ‘misura’ del nostro tempo andrebbe restituita a chi rimane indietro.
Possiamo cavarcela con una donazione, ce ne vengono offerte di tutti i tipi. La responsabilità che ci siamo presi, invece, facendo questo lavoro, impone che il tipo di valore da restituire riguardi in ugual misura il tangibile e l’intangibile, in altri termini la possibilità di riattivare pensieri, consapevolezza e relazioni. Lo aveva prefigurato, questo senso di responsabilità, già nel 1964 Ken Garland scrivendo il suo manifesto First Thing First. Lui, grafico, alla fine di una conferenza al Institute of Contemporary Arts di Londra, aveva sentito, già allora, l’urgenza di fissare il punto; scrivere un manifesto immediatamente firmato da numerose personalità che stabilisse priorità e doveri del nostro lavoro. Non possiamo occuparci solo di sedurre, ma anche di far pensare. Regalare spirito critico, insomma.
D’altro canto basta guardare tra le pieghe dell’informazione più ufficiale e mondana per trovare casi come quello offerto dall’Atelier d’Architecture Autogerée, pionieristico collettivo di architetti che si è fatto le ossa nelle periferie parigine recuperando tratti di ferrovia in abbandono grazie al lavoro inclusivo di persone, abitanti senza fissa dimora. Ne troviamo traccia in un libro prezioso pubblicato da Iaspis (Swedish Arts Grants Committee's International Programme for Visual Arts), dal titolo Design Act. Agire dunque, sul campo. È ciò che abbiamo fatto.

La proposta che nacque da quella giornata è quello che oggi è Freedom Room. Eravamo conquistati dall’idea che quello spazio prefigurato durante il lavoro con i detenuti divenisse uno spazio reale, vivibile, disponibile alle persone. Una nuova stanza, un nuovo modo di abitare, temporaneo, diffuso, a basso costo; un modulo non più grande di una cella, che negli stessi 9 metri quadri potesse offrire la stessa capacità di meravigliare che lo spazio raccontato da Fernando, Massimo, Vincenzo, Bel Alì e Leo aveva offerto a noi. Poteva diventare un antihotel, un virus positivo, una casa per studenti e giovani professionisti nomadi, desiderosi di visitare una grande città spendendo il meno possibile. Esponemmo le prime idee e i primi frutti di quel lavoro in una veloce installazione presentata durante la prima edizione di Festarch, Festival Internazionale dell’Architettura in Umbria, nel 2009. Gli spazi erano quelli del Caos di Terni e portammo lì un primo embrione di quello che sarebbe divenuto poi il modulo abitativo che oggi viene esposto alla Triennale di Milano. Il tempo, l’amicizia e una sana ostinazione hanno poi fatto in modo che tra le pieghe degli impegni personali, l’idea maturasse, raccogliesse energie più allargate e potesse diventare un progetto concreto.
Freedom Room oggi è reale, è un’idea finita, compiuta e tuttavia è un progetto solo all’inizio. Questo che presentiamo è un primo risultato, finalmente l’idea nata allora è diventata un prototipo visitabile, reale, da toccare. Vogliamo però iniziare da qui per farlo diventare un prodotto, capace di stare nel mercato reale, ma realizzato interamente nella falegnameria del Carcere di Spoleto. Lì dove è nato. Vogliamo che diventi il nuovo lavoro per altri detenuti, che costituisca per loro una occupazione reale, quotidiana, in grado di togliere densità al tempo e restituire dignità a persone che troppo facilmente vogliamo dimenticare.
Testi di riferimento - POTTER Norman, Cos’è un designer, Thing Places Messages, Codice Edizioni, 2010;
- PEREC Georges, Specie di Spazi, Bollati Boringhieri 1989;
- HARA Kenya, Ex-formation, Lars Müller Publishers 2015;
- DE BOTTON Alain, Architettura e Felicità, Guanda, 2008;
- TINTI Lorenzo, Collezionare Meraviglia, Sulla Wunderkammer cinque-seicentesca, Bibliomanie.it N. 25 Aprile/Giugno 2011;
Obiettivi formativi Il corso di Interior Design si pone come obiettivo generale quello di sviluppare nei candidati la capacità di affrontare metodologicamente le fasi di analisi, lettura, sviluppo progettuale e formulazione ragionata di un progetto di interni in modo complesso. In particolare si richiede alla fine del corso il saper sviluppare soluzioni progettuali originali in grado di superare le sfide e i limiti imposti dallo spazio di interni che si prenderà in considerazione; saper dimostrare, attraverso il proprio progetto, di aver chiari riferimenti storici e riferimenti contemporanei discussi all’interno del corso; dimostrare come la metodologia di ricerca utilizzata si rifletta in modo visibile nella metodologia di progettazione utilizzata; dimostrare la capacità di lavorare in gruppo e attivare le collaborazioni utili al raggiungimento del proprio obiettivo progettuale; sviluppare una adeguata capacità di presentazione in termini di linguaggi e strumenti impiegati, dando uguale importanza al racconto delle fasi di indagine, gestione del processo, idee progettuali, materiali impiegati, risultati attesi.
Obiettivi di questo laboratorio sono, da un lato la familiarizzazione con il progetto dello spazio inteso come insieme di materiali, volumi, luci, superfici;
dall’altro la concezione dello spazio come insieme di relazioni e interazioni.
Il pensiero progettuale va quindi dedicato simultaneamente alla dimensione funzionale e tecnica del progetto e alla dimensione semantica e di appropriazione che si realizza solo pensando a chi lo vivrà e lo utilizzerà.
Si capisce quindi che la costruzione di un processo progettuale appropriato deve tenere in considerazione, insieme alla ricerca bibliografica e accademica legata alla disciplina, anche momenti di ricerca da fare sul campo, interessandosi alla dimensione sociale e umana caratteristica dei nostri tempi, studiando da vicino il modo in cui i differenti gruppi sociali che caratterizzano le nostre città oggi, vivono le proprie attese e propri bisogni riguardanti lo spazio di vita e di convivenza.
Prerequisiti Gli studenti dovranno aver sostenuto l'esame di storia del design e completato i laboratori del primo anno.
Metodi didattici Il corso si articolerà in fasi distinte:
A_Presentazione del tema e dei riferimenti storici e disciplinari attraverso lezioni frontali all'interno delle quali saranno presentati casi di studio e esempi di autori notevoli;
B_Sessioni di lavoro in aula tramite revisioni singole o di gruppo al fine di coadiuvare il lavoro dei candidati in base ai criteri stabiliti in fase di esposizione del tema progettuale;
B_Ricevimenti e revisioni individuali per la messa a punto delle fasi di dettaglio dei progetti.
Altre informazioni Agli studenti verrà chiesto di sviluppare le seguenti esercitazioni:

A—Antiprimadonna, sperimentare con i materiali. È uno degli esercizi classici dei corsi di Basic Design, solitamente dedicato allo studio del rapporto, sia per contrasto che armonia, tra campiture, colore e pattern.
Il nome deriva dall’obiettivo dell’esercitazione che chiede, nella composizione di non far prevalere nessun elemento sugli altri. Un tipo di esercitazione dedicata alla formazione di una sensibilità per l’equilibrio e il dinamismo competitivo nel campo della progettazione visuale.ù
L’obiettivo nel nostro corso, sarà quello di trasportare un’esercitazione nata nel campo del visuale, nell’ambito più proprio dell’interior designi qualità di processore ci permetterà di familiarizzare e sperimentare nell’utilizzo e nell’accostamento dei materiali.

B—Esercizio di possesso fotografico di un luogo. Scegliere un luogo specifico su cui fare un esercizio di appropriazione per immagini. Un esercizio di racconto non testuale usando la tecnica di giustapposizione di immagini o oggetti che a quel luogo appartengono.
È importante qui fare due esempi che ci spiegano il principio di ‘rivelazione’ dello spazio che si cela dietro il lavoro di appropriazione e possesso di questa esercitazione.

Il filmato ‘Charles and Ray Eames’ House’ in cui la coppia di famosi designer dedicato questo racconto di immagini filmate di grande poesia al racconto della propria abitazione.

Il secondo esempio è invece più recente ed è tratto dal corso ‘Ex-formation’ tenuto dal designer giapponese Kenya Hara, direttore artistico della famosa catena di negozi Muji, che invita i propri studenti a riappropriarsi di un luogo naturalistico caratteristico del Giappone, il fiume Shimanto, secondo chiavi che ce lo facciano apparire come inaspettato e nuovo.

C—Progetto di gruppo. La Casa evolutiva.
Origini.
Nel 1978, il giovane Renzo Piano insieme a Peter Rice, pochi anni dopo essersi guadagnata fama internazionale con il concorso vinto nel 1972 per la progettazione del Centre Pompidou di Parigi (verrà completato nel 1975), progetta la sua ‘Casa evolutiva’.
Un progetto che nasce come possibile risposta al terremoto del Friuli del 1976, un disastroso evento che distrugge diversi paesi, primo caso protagonista delle cronache nazionali.
La Casa evolutiva.
Natura del progetto.
Piano e Rice concepiscono lo spazio domestico come spazio destinato a una gestione dinamica e variabile dello spazio abitativo, partendo da una struttura esterna di dimensioni fisse al cui interno però, la possibilità di modificazione e personalizzazione delle dimensioni vitale è massima. Le tamponature vetrate sui lati esterni possono infatti muoversi su binari, modificando i rapporti tra spazio interno e spazio esterno.

Il concetto utopico e radicale dello spazio.
Una concezione radicale e utopica come quella concepita da Piano e Rice fa parte di una stagione del design italiano e internazionale in cui il tema della radicolite e dello spazio dinamico ed effimero erano largamente indagati.
Basti pensare all’esempio offerto da attori quali il collettivo del Superstudio, gli spazi effimeri concepiti da giovane Sottsass, i designer del collettivo Archizoom e più in generale l’intero movimento italiano che confluirà nella mostra ‘New Italian Landscape’ all’etica nel 1972 al Moma di New York.
Modalità di verifica dell'apprendimento Le prove in sede di esame saranno valutate secondo alcuni criteri per altro congruenti con quanto esposto nel paragrafo dedicato agli obiettivi formativi. In particolare:

Progetto di gruppo
> Validità e solidità dell'approccio progettuale adottato in termini di impianto metodologico;
> Qualità e profondità del lavoro di 'design research' a supporto del progetto elaborato in particolare con riferimento alla semantica degli spazi e all'aspetto relazionale che gli stessi sono in grado di stabilire, consultazione dell fonti e integrazione con ricerche personali;
> Coerenza con il tema assegnato;
> Qualità delle soluzioni progettuali adottate nel rispetto della complessità progettuale;
> Capacità di lavorare in gruppo;
> Cura e completezza della presentazione;
> Articolazione della presentazione verbale.

Progetto personale
> Capacità di osservazione e analisi dello spazio;
> Capacità di sintesi e racconto sia visivo che testuale;
> Efficacia nell'esposizione e del racconto;
> Cura della presentazione e dell'elaborato finale.
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